Ovvero come far divenire uno strumento di valutazione uno strumento per la demotivazione
Ripropongo qui un articolo scritto in passato. Risale infatti al 2009 ed è stato pubblicato da AIF nelle learning news. A voi giudicare se le cose sono cambiate o meno.
Qualche tempo fa, dialogando con conoscente responsabile di un servizio di una grossa impresa, dovetti subirmi uno sfogo sulle famigerate schede di valutazione. L’azienda infatti, ogni anno, la obbligava a redigere le schede di valutazione del personale, vere e proprie pagelline, dall’aria piuttosto complessa, nelle quali lei doveva adempierenella compilazione a quello che chiamava l’ “imperativo categorico”: il 25% dei dipendenti sopra la media, un 50% dei dipendenti adeguato, ed il restante 25% al di sotto. A questa valutazione era o meglio è tuttora agganciata la progressione di carriera ed ovviamente un incentivo economico. Fin qui niente di male, ma la responsabile in questione dirigeva un ufficio a suo dire particolare, nel senso che il clima, la qualità delle persone, il tipo di lavoro svolto, probabilmente la sua capacità di leadership, avevano fatto si di creare un gruppo di lavoro coeso, altamente produttivo e motivato.
All’inizio brandendo il vessillo del buonsenso la responsabile aveva tentato di negoziare con il responsabile risorse umane una diversa valutazione ed un applicazione più elastica delle percentuali. Il risultato? Nessuno, le percentuali dovevano essere rispettate in ogni sede, e questo, a dire dell’ufficio risorse umane, poteva essere raggiunto solo obbligando tutte le singole unità dell’impresa ad un rispetto ligio delle percentuali. D’altronde la matematica non è un opinione: se si rispettano le percentuali in ogni unità si mantengono entro i parametri i diversi settori e di conseguenza l’intera sede aziendale.
Il suo personale, pur apprezzando il tentativo di negoziazione stoicamente intrapreso, non reagì molto bene a questo tipo di valutazione, ed immediatamente cominciarono a serpeggiare malumori, che sfociarono presto in una sorta di strisciante competizione per le risorse disponibili.
Ad onor del vero, nella scheda di valutazione era prevista anche la valutazione globale del gruppo, ma il punteggio non era sufficiente per raggiungere l’agognato 25%, occorreva di più, occorreva distinguersi non tanto sul lavoro, ma nel rapporto con chi queste schede le compilava.
La concentrazione sul lavoro, dedicata prima al raggiungimento di obiettivi chiari e accessibili (elemento questo già non comune) venne dedicata anche ad attività volte alla messa in mostra di abilità individuali e personali, tra le quali figuravano (fatto strano per gli esseri umani) anche l’accondiscendenza al capo e tutta una serie di atteggiamenti atti a dimostrare un’indomita simpatia, verso chi, fino al giorno prima era stato solo un bravo coordinatore. Era accaduto un fatto strano, da un’orchestra che riusciva a produrre ottimi brani musicali, si era passati ad un insieme di solisti, in grado di suonare con perizia e maestria, ma non disposti a suonare insieme agli altri. Un gruppo, in grado di lavorare bene, producendo anche critiche costruttive e soluzioni nuove, aveva quasi d’improvviso perso questa spinta, per dedicarsi ad un corteggiamento serrato in vista di un obiettivo tutto sommato misero.
Per moderare gli effetti di questa politica aziendale, la responsabile non trovò altra soluzione che quella di obbedire senza eseguire. Dopo interminabili riunioni, volte alla gestione dei conflitti che si erano sviluppati, coloro che continuavano a fare il loro lavoro, anzi che continuavano a dare quel qualcosa in più, vennero inseriti in una turnazione per poter accedere alle risorse aziendali, iniziò l’epoca dei turni per il vertice della graduatoria. Inutile dire che il periodo non fu facile, ma che comunque con un po’ di sana pazienza venne evitata una catastrofe organizzativa.
Un vecchio moto recita “chi ha ragione troppo presto, ha torto” e forse capitò proprio questo alla responsabile, che prima dei suoi colleghi si accorse del disguido. Fiduciosa nel buon senso comune, non nascose mai la proprie perplessità di fronte a questa modalità di applicazione della valutazione. Mentre suoi colleghi silenti applicavano le regole senza infastidire nessuno, questo suo atteggiamento non venne considerato costruttivo da parte dell’azienda, votata ormai al mito dell’infallibile gaussiana del merito.
Capitarono cose strane, che senza malizia possono essere considerate di routine in un’azienda. Cominciò infatti lo stillicidio delle risorse del gruppo. I dipendenti venivano spostati in altri settori e sostituiti con quelle che comunemente vengono chiamate “bocce perse”. La formulazione che giustificava questo era la seguente “tu sei così brava a motivare le persone che anche se ti mandiamo degli elementi critici tu sarai in grado di farli lavorare!”. Di fronte ad una simile affermazione non è possibile corrucciarsi, anzi, risulta comune compiacersi per la stima che la direzione pone in noi, peccato che la voce “responsabile in grado di far lavorare bocce perse” non sia presente nella valutazione. Ma esiste un ma, addestrare e motivare risorse, non è semplice e non si può fare utilizzando una bacchetta magica. Il gruppo di lavoro ha una sua genesi, un suo ritmo vitale, non è un insieme di macchinari ben oliato, ed anche se ci si ostina a chiamare le persone risorse umane, senza voler offendere le gaussiane, le persone non rispondono agli eventi come una macchina razionale.
La storia potrebbe andare avanti ancora molto, ma importante è sapere che mentre i colleghi silenziosi della responsabile hanno potuto contare su personale adeguato per il raggiungimento dei loro obiettivi, la responsabile soggetto della nostra storia, ha dovuto faticare parecchio per non essere da meno. Ha lavorato molte più ore per supplire alle mancanze del nuovo personale, ha dovuto gestire molti conflitti, e rinegoziare obiettivi, peccato che mentre lei stava facendo questo, i suoi colleghi fossero impegnati a far parte di quel 25% di eccellenza e che abbiano fatto carriera al posto suo.
Questa storia, che come consulente mi aveva reso sufficientemente perplessa, mi è tornata in mente leggendo un articolo pubblicato dall’ Harvard Business School relativa ad una recente ricerca pubblicata dalla London School of Economics.
In realtà tutta l’attenzione dell’articolo è centrata sui CEO e sugli stipendi da favola che vengono loro elargiti, nonostante le diverse crisi aziendali abbiano mostrato quanto si sia sbagliato in queste valutazioni.
Questa ricerca, o almeno gli stralci che ho potuto leggere, pone interrogativi complessi ed inquietanti. Il Dr Bernd Irlenbusch infatti sostiene che da un’analisi di 51 studi sperimentali sono emerse “prove schiaccianti” che gli incentivi economici (per come sono gestiti attualmente, devo aggiungere) possono ridurre l’inclinazione naturale di un dipendente a completare un compito e trarre piacere dal farlo. Nello specifico gli incentivi finanziari porterebbero ad una riduzione della motivazione intrinseca ed a diminuire l’attenzione per il rispetto di norme sociali all’interno del contesto lavorativo, quali ad esempio l’equità.
La ricerca giunge alla conclusione che le imprese dovrebbero essere consapevoli del fatto che la fornitura di performance-related pay potrebbe tradursi in una riduzione netta di motivazione all’interno di un team o di un’organizzazione.
Sicuramente questi temi sono complessi, da un lato il fatto di essere retribuiti adeguatamente (in relazione anche all’apporto fornito) rimane un principio da seguire, dall’altro le catastrofi che possono essere generate da un’applicazione poco lungimirante, sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto in un contesto nel quale spesso la retribuzione non viaggia di pari passo con la responsabilità.
Non resta quindi che mantenere l’attenzione alta, non dimenticando magari parole scritte in tempi non sospetti, come quelle di Senofonte nell’Economico “…per nominare la tesoriera, abbiamo esaminato con cura l’ancella che ci sembrava meno portata alla gola e al bere, la meno incline al dormire e al ricercare gli uomini; quella inoltre, che ci sembrava dotata della memoria migliore, la più capace di badar a non farsi punire da noi per qualche negligenza, ma la contrario di cercar di essere ricompensata da noi per i suoi buoni servizi….Nel formarla, noi le ispiriamo il desiderio di contribuire a sviluppare la nostra casa, mettendola al corrente dei nostri affari e facendola partecipare ai nostri successi”.